sabato 27 ottobre 2007

Odio 'sto prato che sembra una desolata landa




Giornata rovinata…

Tra i fusti flessuosi di erbe perenni
osservo elevarsi nuovi castelli.
Spigoli duri increspano il prato,
polveri fini cambiano stato:
in duro cemento,
strato su strato.
Intarsi d’ossa,
rigide carni,
si staglian
nel cielo orrendi metalli.
Osservo i castelli dei nuovi signori,
blasoni di un mondo diverso dal mio.
“Guardatemi qua,
incido la ripa,
son forte son vivo,
col nero di cassa
mi infeudo tra i monti”.
“Una casa mi faccio
che sia tutta mia,
la vendo il dì dopo
e compro più in là,
mi piace vedere
‘stò mondo che cambia,
odio ‘stò prato che sembra una landa”

giovedì 3 maggio 2007

FAGGI, MONGOLFIERE, STRADE E SUDORE ossia: elegia della SLOITHA*


*La sloitha è la tradizionale slitta tramite la quale si trasporta(va) a valle la legna. L'associazione delle lettere TH va pronunciata nella forma inglese in quanto in grado di riprodurre piuttosto fedelemente la fonìa dialettale.



Ciò che segue è la cronaca di un autunno (anno 2002 circa) nel corso del quale le consuete operazioni legate all'esbosco delle assegnazioni di legna da ardere (consegne) avevano assunto connotati più marcatamente comici rispetto alla loro normale comicità!


Siamo ormai verso i primi di dicembre, l’inverno sembra ormai incombente ma la neve, per la gioia di molti e la preoccupazione di altri sembra aver scelto altre latitudini sulle quali adagiarsi.
L’autunno è scivolato via così, troppo bello per essere vero, concatenando giornate stupende, colorate, calde, distorte solamente dagli spari di qualche carabina.
Verso metà settembre, ho visto le chiome dei faggi delle Ragade trasformarsi in palle colorate, è curioso, come d’autunno le sagome dei faggi diventino rotonde, non danno questa sensazione durante il resto dell’anno.
I colori autunnali, sfuggono via con incipienza sconsiderata, dal momento che notiamo qualche marginale foglia cambiare aspetto ecco che in breve tempo l’intera massa inizia a staccarsi e creando un costante rumore di sottofondo va a depositarsi su terreno.
Generalmente verso quell’epoca si verifica sempre un considerevole abbassamento della temperatura, basta poco, qualche giorno ed i processi degenerativi delle cellule che stanno alla base del picciolo della singola foglia divengono inarrestabili, la conseguenza è suo il distacco dal rametto.
Ho goduto anche quest’anno del questo ciclico avvenimento, platea d’occasione il bellissimo bosco del Fratton, situato tra l’omonima malga ormai sfatta e la malga Fossetta, proprio di fronte alle Ragade dove i faggi d’autunno si trasformano in mongolfiere.
Qui il bosco è bellissimo, lo è perché è vario di specie arboree, lo è perché nel sottobosco vi ho trovato varie specie di felci alle quali quest’anno mi sono dedicato, lo è perché la pendenza è ancora accettabile prima di aumentare e inerpicarsi verso il Palughet, lo è perché quando ad undici anni lavoravo alla Malga Fossetta lo attraversavo, in solitudine, il sabato sera, per tornare a casa in uno stato d’animo di felicità mai eguagliata.
Certo che un bosco reduce da un taglio di utilizzazione (lotto) è un bosco che grida sofferenza, il suolo, simile al viso scarificato di una giovane africana, porta i segni del passaggio di un cingolato. Pezzi di tronco, rami e fronde come gettati in una fossa comune, il segno del martello forestale sulla ceppaia è la condanna a morte di un albero che ha visto i miei antenati.
Questo provo alla sua vista.
Ma per un attimo!
Il bosco in questione, ha subìto, quest’anno, prima il taglio delle conifere e successivamente quello del faggio come legna da ardere, all’interno della consueta assegnazione del quantitativo di legna, ad uso domestico, che spetta ai censiti del comune (consegne).
Ogni autunno, all’avvicinarsi del periodo delle consegne mi dico; devo scrivere qualcosa, perché so, già in anticipo com’è, è sempre la solita storia; gli interessati iniziano a fremere e l’attesa, sotto forma di vibrazioni dell’etere si fa insistente.
Iniziano a circolare le voci sulla progressione dei lavori di allestimento delle assegnazioni; sulla loro località e rispetto a questa la comodità in relazione alla strada di accesso; la grossezza delle piante, in quanto come si sa, più sono grosse e più sono ambite, anche se bisogna lavorarle il doppio e soprattutto guai che la quantità di abete sia troppo evidente rispetto al faggio.
La situazione, se pur tesa, rimane tranquilla fino a metà settembre.
Superata questa data, l’ansia si rende visibile, il terrore per l’inverno in avvicinamento e la smania di impugnare gli attrezzi giusti fanno man mano degenerare la percezione temporale della scadenza; da li in poi, ogni commento nei confronti di guardaboschi ed affini divengono leciti.
Si vive l’attesa delle consegne e l’inizio delle attività come una delle tappe irrinunciabili per chi vive questa montagna, geneticamente acquisita in secoli di necessario praticantato.
Si sente però sempre più spesso dire, quando la gente si incontra con la roncola in mano: “se fuse da vardar, convien comprarle”. Ma chi ci rinuncia! Lé massa bel.
L’ultimo ciclo è stato quello che io chiamo dell’involuzione, o del contropiede, oppure del ripudio, più o meno forzato della tecnologia moderna applicata all’esbosco.
Finalmente, dopo anni, si sono create nonostante il reticolo di strade forestali, le condizioni per cui i comuni mezzi meccanici a disposizione di chi non fosse espressamente un boscaiolo di professione, erano pressoché inutili; pendenza troppo poco elevata per poter montare un filo a sbalzo, terreno troppo ripido e sconnesso per l’accesso dei comuni trattori.

Quindi; SLOITHA!
La prima giornata di lavoro: direi interlocutoria.
Ognuno a ripulire il proprio settore dalla ramaglia, guardando l’ambiente circostante quasi con ostilità, la strada lontana, altra legna sparsa sotto di noi a sbarrare la strada.
Qualche parola con i vicini, qualche accenno o azzardo ad alternative diverse, ma non emerge nulla di più convincente.
Quindi; Sloitha.
A questo punto, appurato che alternative non ce ne sono si presenta un problema di non facile soluzione, conseguenza logica dell’acquisita modernità e comodità che mamma Provincia ha voluto fornirci in anni di politica di sviluppo stradale.
Il problema era: chi ha ancora una sloitha in soffitta?
E se c’è, in quali condizioni?
Dal censimento dei mezzi, effettuato sul campo, è risultato che qualcosa c’era ancora, ma in quanto a stato di conservazione stavamo messi piuttosto male.
Dopo la prima mezza giornata di lavoro si sono contate numerose le defezioni fra i mezzi impiegati.
Le parti più a rischio si sono dimostrati i Branch, ossia le appendici tramite le quali la sloitha si tira e quindi si guida, seguiti dalle Gambéte, cioè i supporti su cui poggia la struttura di carico, i Bachét, ossia la serie dei bastoni che collegano fra loro le varie parti della struttura di carico. Infine, credo uno in tutto, la parte principale del mezzo cioè el Strothil, il pattino.
Non ricordo di aver assistito alla rottura di alcuna Sèla, cioè i robusti legni trasversali della struttura portante.
Il secondo giorno di lavoro, nel pomeriggio, mi presento sul posto, la mia sloitha, che diligentemente avevo appoggiato ad un grosso abete, non c’è più! Mbeh?
Stava già sostituendo una sua collega ricoverata!
Mancava all’appello, fra le altre cose, un requisito importantissimo frutto anch’esso di uno stile di vita ormai cambiato; l’efficienza fisica delle persone.
Il detto che la sloitha si fa portare in salita e tirare in discesa è sintomo di quanto poco possa essere stata amata e di quanto la forma fisica sia requisito essenziale per la sua sopportazione.
In breve quindi, il ciglio della strada s’è trovato addobbato di relitti meccanici ed…umani.
I primi, arrangiati con mezzi di fortuna, rami del bosco a sostituire i branch, legati o inchiodati con poca arte sicuramente, i secondi sconfortati e doloranti; ma caparbi.
Ad un certo momento, e per fortuna il sottoscritto aveva finito, è comparsa una sloitha…in ferro!
Esclusa “l’eretica” presenza metallica, sul campo si è assistito alla sfida fra due categorie di mezzi, quello con pattini lunghi e quello con pattini corti.
La lunghezza del pattino, non è attinente alla porzione che scivola sul terreno, bensì a quella che rappresentata dalla curvatura del pattino stesso, emerge verso l’alto.
Alla prima categoria fanno quindi parte i mezzi la cui curvatura, dopo lo stacco da terra, continua per altri 50-60 cm fino ad innestarsi con i branch, dove viene ad esso saldamente legata tramite una sottile cordicella.
Alla seconda quelli la cui curvatura si interrompe dopo una ventina di centimetri, quanto basta per permetterne lo scorrimento.
La sfida non ha portato comunque a dimostrare la validità di una o l’altra tipologia.
Quale sia l’origine della diversità è difficile da dire; il pattino “allungato” è tipico ed esclusivo di Sagron (e di Gosaldo), l’altro è utilizzato a Mis e comunemente si trova nelle altre valli.
La componente geografica, riferita alle caratteristiche orografiche delle rispettive zone, sembra ininfluente rispetto allo sviluppo di un sistema o dell’altro, probabilmente il tutto si riconduce a semplici consuetudini di fabbricazione.
L’unica giustificazione, per altro da appurare, è forse il fatto che sui ripidi versanti verso il Piz di Sagron, vi sia maggiore possibilità di rinvenire i faggi necessari aventi caratteristiche di curvatura adatte a ricavarne Strothii allungati.
Varrebbe la pena approfondire l’argomento.
Proprio questa sera, su sollecito di mio padre, ho scelto la mia nuova slòitha, ne ha costruite ben quattro; quest’autunno, le commissioni sono fioccate come non mai, sull’onda del risultato del censimento!
Una sloitha nuova, invoglia ancor meno ad essere utilizzata, pesa come un macigno. Fortunatamente, come spesso accade, il tempo migliora le cose ed il legno essiccandosi perde gran parte della sua umidità, assestando il peso complessivo sui 15-20 chili.
Per la sua realizzazione vengono impiegati dai quattro ai cinque tipi di legno diversi.
Come precedentemente accennato, le parti del mezzo sono:
I strothii
Le gambéte
Le sèle
I bachét
I branch
Ognuno di essi si realizza con un legno specifico; i Strothii rigorosamente in faggio, perché duro, resistente allo sfregamento e regge bene gli incastri con le altre parti, così le Gambéte, che alle volte vedono l’utilizzo anche del frassino.
Le Sèle vengono realizzate normalmente in frassino, se vi è la possibilità si usa l’abete che però dev’essere ricavato da piante giovani e molto ramose, chiamate in dialetto Spinaruol, il gran numero di piccoli nodi presenti impedisce che il legno si apra seguendo le venature.
I Bachét vedono l’impiego del sorbo degli uccellatori, in quanto molto flessibili e resistenti in relazione al ridotto diametro.
Per ultimi i branch, realizzati in legno di nocciolo perché, come il sorbo, flessibile e resistente alla curvatura. Quest’ultima qualità è piuttosto rilevante, in quanto appena al di sopra del punto di innesto con il pattino subiscono una brusca piegatura in avanti per raggiungere la posizione ideale per il traino. La piegatura viene facilitata riscaldando la parte.
Inoltre, il particolare sviluppo di questa specie arbustiva, offre la possibilità di ricavare bastoni provvisti di una naturale impugnatura ripiegata, data dall’inserzione a circa 45 gradi, di un ramo su di un altro subordinato.
Vi risparmio indicazioni più dettagliate sulle tecniche costruttive per dire solamente che è vietato l’uso di qualsiasi collante nonché di viti e chiodi.
Per non rendere questa descrizione lunga quanto il tempo che non passa mai tirando la SOITHA concludo dicendo che le strade forestali sono indubbiamente comode, ma a tutto ci deve essere un limite…!

mercoledì 18 aprile 2007

"Passeggiata" scialpinistica - Giro della Forcella del Piz di Sàgron-

"Passeggiata" scialpinistica

- Giro della Forcella del Piz di Sagron-







Di seguito alcune immagini della "passeggiata" scialpinistica da me effettuato il 15 marzo 2007.


Partenza: Passo Cereda

Arrivo: Passo Cereda

Durata della "passeggiata": 3,5-4 ore

E' un itinerario non usuale ma conosciuto dai Primierotti. Si effettua anche d'estate ed è mooolto suggestivo.

D'inverno è indispensabile essere certi della stabilità della neve.

Pur se chiamato passeggiata, è un percorso piuttosto tecnico e presuppone una buona capacità di leggere innanzitutto la neve ed una buona padronanza dello sci.

Dal Passo si prende in direzione Malga Fossetta ed una volta raggiunta si segue il sentiero per Passo Palughét (tabella all'inizio del pascolo in alto a sinistra)

La Forcella del Piz, una volta raggiunto il Palughét, è visibile a sinistra dell'omonima cima ben identificabile salendo.

La Forecella del Piz si raggiunge scendendo un ripido canalino che si trova un centinaio di metri a sinistra del Passo in direzione est (verso Pale del Garofol, seguendo il crinale tra i mughi), tramite tale canalino si raggiungel'alta val Giasinozza. Da qui, in circa mezz'ora si arriva alla forcella del Piz di Sàgron.

Il 15 marzo, sulle pareti a sinistra della forcella del Piz, svolazzava e cantava il bellissimo Picchio muraiolo.

La discesa per il canalone è piuttosto facile, naturalmente è indispensabile accertarsi della stabilità del manto nevoso!!!
Arrivati in prossimità dei primi mughi, è bisogna girare rapidamente a sinistra e districandosi tra le piante di faggio puntare decisamente verso l'alto Fratton per raggiungere la strada forestale che confluisce in quella che ci riporta a Passo Cereda e già percorsa all'andata.



Salendo verso il Passo del Palughét




Arrivando al Palughet si materializza il Piz



Piz forcella del Piz di Sagron dal Palughét




Forcella del Piz



Salendo alla Forcella del Piz




Forcella del Piz di Sagron


Veduta dalla Forcella del Piz verso Sagron e Agordino



Discesa dalla forcella verso Sagron

SEMPLICEMENTE… NERONE!!
(emisferi capovolti)

C’era una volta, nel bel mezzo di una radura, in un bosco denso e scuro, il………

NO!!
Non si può certo iniziare i questo modo un racconto sul…CEDRONE.

CEDRONE: animale piumoso, tacchino, petto di pollo, coscia, osso a forchetta, buio,
TELIP-TELEP, FLAP-FLAP E CRACK!!

Mah!!
…“…smorza la pila”, dicevo sottovoce al mio amico G., mentre, insidioso nel buio e poco solidale con il silenzio necessario, l’ennesimo rametto si spezzava sotto i nostri piedi, provocando quel caratteristico rumore secco, tanto caro al Cedrone che subito si allarma.

Piuttosto………
…potrebbe colpire la volta celeste che, se limpida nel cielo primaverile, ti fa sentire come rinchiuso in una boccia di vetro e dove, lontani dalle luci che normalizzano il sistema urbano, quasi le costellazioni ti dicono il proprio nome…

Mmmm…difficile decidere…
Forse però così:
Tra scienza e poesia, sudore, freddo e scocciatura, quando in primavera mi trovo al mattino presto, nel buio, ad attendere il Cedrone:

Una persona, compare!
Paaablooo!!??
Che ci fai qui, Pablo?
Sogno o sono semplicemente in bilico tra il giorno e la notte, fra la foresta e il limbo?
Da dove esci? Forse quel pertugio fra le pietre comunica con le Ande e con l’aldilà?
Quasi quasi mi ci infilo anch’io!
Diavolo! c’è scritto (in inglese) ONE WAY!! Sono tagliato fuori!
Ma Pablo!
Questo non è posto per te, hai sbagliato, hai confuso i meridiani ed intrecciato i paralleli, devi rifare tutto!
Anch’io devo rifare tutto, devo togliermi dalla mente queste larghe foglie gocciolanti, queste infinite e viscide liane e quei fiori troppo grandi, esagerati per essere nostri. Devo scappar via da questa foresta tropicale dove le gocce si trasformano in verdi smeraldi e le serpi in fallici attributi!!
Guardo l’orologio, ma vedo solo, una lieve increspatura ………!

Che scherzetto stamattina…cose dell’altro mondo, da non credere.
Ho evocato Pablo!!
Provo con questa formula inventata all’istante a rimettere in ordine le cose:

“Penne nere e penne chiare,
penne rigide e penne morbide,
rossi sopraccigli e becco rapace,
impeto battagliero e pari sguardo.”

Diavolo!
Sembra funzionare!

Paralleli e meridiani si ricompongono e le grosse conifere mostrano nuovamente le loro sagome acuminate.

Me ne rendo conto ora;
ad evocare l’immagine di Pablo la sinergia di immagine fra Condor e Cedrone!
Affinità fra i due?
Nel buio della notte, perché no?

“Io sono il condor volo
su di te che cammini,
e d’improvviso in un giro
di vento, penna, artigli,
ti assalto e ti sollevo
in un ciclone sibilante
di freddo tempestoso.

Alla mia torre di neve,
alla mia tana nera,
ti porto, e sola vivi, e ti copri di penne,
e voli sopra il mondo,
immobile, nell’alto.

……………………”

(Pablo Neruda, Il condor)

domenica 8 aprile 2007






















Interviste alla ricerca dell'identità delle nostre piante





Antonio Salvadori (Tonino)
Luogo del rilievo e dell'intervista

Matiuz – Casere, 18 giugno 2003

Piantai = Plantago sp., Piantaggine
Strafoi = Trifolium sp., Trifoglio
Djegol = Laburnum alpinum, Maggiociondolo
Fiuda = Peucedanum ostruthium
Bertonega = Se spachea la falz
Bisigagn = Anti gonfiore
Slavatha = Rumex sp.; Lingua di vacca
Spin = Cirsium – Cardus, Cardo
Aorosch = Veratrum album, Veratro
Sparaso = Aruncus sylvestris, Asparago selvatico
Sanzane = Salvia pratensis, Salvia selvatica
Gràsola = Chenopodium Bonus- henricus, Buon enrico, Spinacio selvatico
Pan dei alpini = Carlina acaulis
Cicoria = Composita gialla (non classificata)
Slavàtha = Petasites albus, Farfaraccio
Sédola = Rumex acetosella, Acetosella
Sonài = Trollius europeus, Botton d’oro
Coda de mus = Equisetum sp., Equiseto, Coda cavallina
Coca = Lilium bulbiferum, Giglio rosso, Giglio di S.Giovanni
Garnétole = Vaccinium vitis-idaea; Mirtillo rosso
Scìarandèi = Rubus saxatilis,Rovo erbaiolo
Fave = Senecio alpinus
Sopìn = Colchicum autumnale, Colchico (aspetto primaverile)
Belladonna = Paris quadrifolia
Aonèr = Alnus incana, Ontano bianco
Sacolèter = Salix eleagnos, S. purpurea
Coca selvàrega* = Lilium martagon, Giglio martagone
Théseroi = Vicia sp
Théser = Pisello
Arcàdene = Felci
Cagnère = Lonicera sp., Caprifoglio
Cornàtha = Clematis alpina, Clematide alpina
Cariéch = Carum carvi, Cumino
Radis doltha = Polipodium vulagare, Felce dolce
Timo = Timus sp., Timo
Sambùch = Sambucus sp., Sambuco






Erminio e Maria Salvadori
18 giugno 2003


Belùdola = Calistegia sp. Convolvolo
Verthen* = Stellaria sp. (da verificare)
Valeriana = Valeriana officinalis, Valeriana
Arnica = Arnica montana, Arnica
Cantarèla = Rhinanthus sp. (..se ‘ndea a le Fante a siegar)
Tabàc selvarech = Verbascum sp.
Fior del mal de testa* = Daphne mezereum, Fior di stecco
Luth = Crocus albiflorus
Galét = Primula veris
Pissa mus = Primula farinosa
Stusa candele = Soldanella sp.
Fraga = Fragaria vesca, Fragola
Ruosa = Rosa sp., Rosa domestica
Mùliga = Rubus idaeus, Lampone
Giàsena = Vaccinium mirtyllus, Mirtillo
Viligoi = da classificare
Pagògna = Viburnum lantana, Lantana
Campanèle = Leucojum vernum, Bucaneve



Marcon Imelda
Pante, 18 luglio 2003


Fior dele Noithe* = Lilium martagon, Giglio Martagone
Pugnoi = Mentha sp., Menta
Stròpa cui = Rosa canina, Rosa sp., Rose selvatiche
Ducamara = Solanum sp., Dulcamara
Bodis * = Daphne mezereum, Fior di stecco
Régie de lìore = Silene dioica, Silene
Arcadene* = Pteridium aquilinum, Felce aquilina
Sfelth* = Felci
Théntivèl*Intivel, Entivel= Stellaria sp.,
Sposèi = Galinsoga ciliata
Aj selvaréch = Alium sp., Aglio


Le specie contrassegnate dall’asterisco sono quelle il cui nome dialettale trova due diverse interpretazioni. Nel caso del Giglio martagone la versione data da Imelda mi sembra la più realistica anche se andrebbe verificata. Interessante è la classificazione data sempre da Imelda in merito alle felci. Secondo la sua versione solamente la Felce aquilina viene detta Arcadena, tutte le altre invece si identificano con il generico Sfelth. Effettivamente la Felce aquilina si presenta dal punto di vista morfologico molto diversa dalle altre in quanto ramificata.

lunedì 2 aprile 2007

Riguardo Sagron-Mis: cercando di capire cosa ci spinge a scegliere di vivere in bilico sulla capocchia di uno spillo



Parlare a riguardo di Sagron-Mis devo ammettere non essere cosa immediata. Non è argomento, come a volte accade, attorno al quale, in maniera spontanea ed istintiva si riescano ad intessere osservazioni delle quali andare soddisfatti; spunti essenziali, diretti, utili a cogliere l’essenza e lo spirito delle cose.
Forse, parlare di Antartide o di profondità marine, di fili d’erba, dei Celti oppure degli Ainu Giapponesi potrebbe rivelarsi cosa più abbordabile perché elementi estranei al concetto di “Endocosmo” come direbbe Fosco Maraini.
Se per endocosmo intendiamo tutto ciò che gravita, anzi, orbita, all’interno della nostra mente come espressione di personalità dovuta all’aggregarsi delle varie esperienze, il nostro ambiente fisico riveste un’importanza determinante e se l’ambiente fisico che ci ospita è lo stesso che ti ha visto nascere e crescere, questa importanza diventa decisiva e probabilmente incide fortemente sull’obiettività. Di primo acchito questo impedisce di far correre i pensieri e con ciò di lasciarli vagare tra le pieghe di quelle cose ammassate che formano l’anima quasi “feltrosa” di un luogo.
L’anima di un luogo non si racconta di certo redigendo l’elenco dei suoi fatti e degli avvenimenti. La ricerca storica e senz’altro scienza affascinate che per quanto riguarda il nostro angolino (non mi va di chiamarlo Sagron-Mis….) non ha trovato ancora di che approfondirsi, ma fa parte di un modo diverso rispetto a quello che vorrei raccontare io, che sarà certamente di parte e….spudoratamente fazioso!
Qual è la fisionomia attuale di questo angolino di mondo? Che posto trova nella società? Quali i pensieri di chi ci abita? Dove siamo partiti, ma soprattutto dove si andrà?

(Spero che chi legge conosca almeno in parte la realtà di questa zona).

Girando il mondo, sorge spontaneo manipolare le tesserine di ricordi che il nostro cervello ha diligentemente affastellato e riposto dove credeva la sicuro per affiancarle alle immagini di quel momento stesso, e farne così un confronto, una valutazione, per trovarne, come si fa in certi giochi da enigmistica, le differenze.
Nei paesi poveri, la realtà è misera -lo dice lo stesso aggettivo- ma è la realtà vera e pura dove condizioni economiche, situazioni umane, paesaggio, procedono di pari passo, sono tra loro complementari, sono frutto indissolubile del momento storico; l’economia di sussistenza forgia le persone e nel contempo sagoma il paesaggio. Tutto è strettamente correlato attraverso solidi rapporti di causa ed effetto.
Le megalopoli occidentali così come quelle orientali mostrano la faccia opposta delle nostre tesserine e confronteremo così il nostro angolino con quella realtà cosi cangiante di modernità, dove miliardi di altre tesserine, variamente agglomerate, creano un tutt’uno con quella realtà altrettanto vera ed attuale dove le attività umane trovano riscontro all’interno di un tessuto urbano propagatosi in funzione di determinati interessi. Anche qui, la realtà è contingente, la Megatown come contenitore per un’espressione dell’umanità attuale.
In mezzo a tutto ciò, in un gradiente di regressione dalle mille sfaccettature tutto il resto del pianeta, con le sue memorie piene di tesserine, a confrontare i suoi estremi.

Come vedo io il mio angolino?

Se separiamo, come fatto qui sopra, il contenitore, ossia la Civitas, dal contesto sociale dalla quale essa è scaturita, ne risulta una specie di ampolla, ancora parzialmente piena al suo interno, ma sospesa nel vuoto, dove i suoi abitanti e le loro tesserine paiono scollegati dall’ambiente circostante, non più in relazione con il progetto iniziale che ha dato forma al nostro contenitore.
Se, a dare forma al nostro contenitore, hanno contribuito nel corso dei secoli passati, ciurme di carbonai, manipoli di minatori, testardi lavoratori della terra strappata al denso della foresta; se sono questi i nostri predecessori, noi, ora, cosa ci stiamo a fare qui?
Cosa ci stiamo a fare dentro un contenitore progettato e soprattutto posizionato in un contesto geografico scentrato rispetto alle attività economiche d’oggi, lontano dai crocevia che stimolano l’esistenza, collaterale alla vita reale che ti mette i circolo con la società attuale, con le nuove tendenze dell’arte e della cultura, con le opportunità, di qualsiasi genere esse siano.
Qual è lo scopo di rimanere a dare sostanza a questo contenitore senza più legami con l’ambiente circostante; l’attività mineraria si è esaurita decenni fa e non ci saranno certo speranze per una sua ripresa né a breve né mai; la coltivazione del bosco non è più pratica di soddisfazione generale e qui, nessuno potrebbe vivere di solo legname, per non parlare dell’agricoltura di montagna che è puro folclore o dell’allevamento drogato dai trasferimenti provinciali e comunitari.

Perché quindi occupare questi spazi fuori dal tempo, rimasti, come oggetti abbandonati sulla pista, da una carovana che si sta continuamente muovendo?
Quanti sono gli esempi di chi ha seguito il flusso, la corrente, andando altrove alla ricerca di opportunità, di linfa vitale; è sufficiente attraversare a caso un qualunque ambiente montano dalle Alpi all’Appennino per imbattersi in borghi fantasma, è sufficiente…uscire di casa!
Tutto si potrebbe risolvere citando nuovamente Fosco Maraini: “ Più una cosa è semplice e più è raffinata, ma non della semplicità del primo tipo, cioè di colui che torna indietro sui propri passi fino al semplice, ma quella del secondo tipo, cioè di colui che arriva al semplice avendo percorso tutta la circonferenza del complicato”.
Noi, abitanti dell’angolino, contenuto dell’ampolla, saremo del primo o del secondo tipo? Saremo dei profondi pensatori, fini intellettuali, architetti dell’esistenza, poeti, oppure stupidi zoticoni dai cromosomi involuti, e ritornati, ascia in mano agli albori della nostra piccola aiuola?
A questo non so rispondere. O forse non voglio rispondere?
Forse risponderò, oltre.