lunedì 2 aprile 2007

Riguardo Sagron-Mis: cercando di capire cosa ci spinge a scegliere di vivere in bilico sulla capocchia di uno spillo



Parlare a riguardo di Sagron-Mis devo ammettere non essere cosa immediata. Non è argomento, come a volte accade, attorno al quale, in maniera spontanea ed istintiva si riescano ad intessere osservazioni delle quali andare soddisfatti; spunti essenziali, diretti, utili a cogliere l’essenza e lo spirito delle cose.
Forse, parlare di Antartide o di profondità marine, di fili d’erba, dei Celti oppure degli Ainu Giapponesi potrebbe rivelarsi cosa più abbordabile perché elementi estranei al concetto di “Endocosmo” come direbbe Fosco Maraini.
Se per endocosmo intendiamo tutto ciò che gravita, anzi, orbita, all’interno della nostra mente come espressione di personalità dovuta all’aggregarsi delle varie esperienze, il nostro ambiente fisico riveste un’importanza determinante e se l’ambiente fisico che ci ospita è lo stesso che ti ha visto nascere e crescere, questa importanza diventa decisiva e probabilmente incide fortemente sull’obiettività. Di primo acchito questo impedisce di far correre i pensieri e con ciò di lasciarli vagare tra le pieghe di quelle cose ammassate che formano l’anima quasi “feltrosa” di un luogo.
L’anima di un luogo non si racconta di certo redigendo l’elenco dei suoi fatti e degli avvenimenti. La ricerca storica e senz’altro scienza affascinate che per quanto riguarda il nostro angolino (non mi va di chiamarlo Sagron-Mis….) non ha trovato ancora di che approfondirsi, ma fa parte di un modo diverso rispetto a quello che vorrei raccontare io, che sarà certamente di parte e….spudoratamente fazioso!
Qual è la fisionomia attuale di questo angolino di mondo? Che posto trova nella società? Quali i pensieri di chi ci abita? Dove siamo partiti, ma soprattutto dove si andrà?

(Spero che chi legge conosca almeno in parte la realtà di questa zona).

Girando il mondo, sorge spontaneo manipolare le tesserine di ricordi che il nostro cervello ha diligentemente affastellato e riposto dove credeva la sicuro per affiancarle alle immagini di quel momento stesso, e farne così un confronto, una valutazione, per trovarne, come si fa in certi giochi da enigmistica, le differenze.
Nei paesi poveri, la realtà è misera -lo dice lo stesso aggettivo- ma è la realtà vera e pura dove condizioni economiche, situazioni umane, paesaggio, procedono di pari passo, sono tra loro complementari, sono frutto indissolubile del momento storico; l’economia di sussistenza forgia le persone e nel contempo sagoma il paesaggio. Tutto è strettamente correlato attraverso solidi rapporti di causa ed effetto.
Le megalopoli occidentali così come quelle orientali mostrano la faccia opposta delle nostre tesserine e confronteremo così il nostro angolino con quella realtà cosi cangiante di modernità, dove miliardi di altre tesserine, variamente agglomerate, creano un tutt’uno con quella realtà altrettanto vera ed attuale dove le attività umane trovano riscontro all’interno di un tessuto urbano propagatosi in funzione di determinati interessi. Anche qui, la realtà è contingente, la Megatown come contenitore per un’espressione dell’umanità attuale.
In mezzo a tutto ciò, in un gradiente di regressione dalle mille sfaccettature tutto il resto del pianeta, con le sue memorie piene di tesserine, a confrontare i suoi estremi.

Come vedo io il mio angolino?

Se separiamo, come fatto qui sopra, il contenitore, ossia la Civitas, dal contesto sociale dalla quale essa è scaturita, ne risulta una specie di ampolla, ancora parzialmente piena al suo interno, ma sospesa nel vuoto, dove i suoi abitanti e le loro tesserine paiono scollegati dall’ambiente circostante, non più in relazione con il progetto iniziale che ha dato forma al nostro contenitore.
Se, a dare forma al nostro contenitore, hanno contribuito nel corso dei secoli passati, ciurme di carbonai, manipoli di minatori, testardi lavoratori della terra strappata al denso della foresta; se sono questi i nostri predecessori, noi, ora, cosa ci stiamo a fare qui?
Cosa ci stiamo a fare dentro un contenitore progettato e soprattutto posizionato in un contesto geografico scentrato rispetto alle attività economiche d’oggi, lontano dai crocevia che stimolano l’esistenza, collaterale alla vita reale che ti mette i circolo con la società attuale, con le nuove tendenze dell’arte e della cultura, con le opportunità, di qualsiasi genere esse siano.
Qual è lo scopo di rimanere a dare sostanza a questo contenitore senza più legami con l’ambiente circostante; l’attività mineraria si è esaurita decenni fa e non ci saranno certo speranze per una sua ripresa né a breve né mai; la coltivazione del bosco non è più pratica di soddisfazione generale e qui, nessuno potrebbe vivere di solo legname, per non parlare dell’agricoltura di montagna che è puro folclore o dell’allevamento drogato dai trasferimenti provinciali e comunitari.

Perché quindi occupare questi spazi fuori dal tempo, rimasti, come oggetti abbandonati sulla pista, da una carovana che si sta continuamente muovendo?
Quanti sono gli esempi di chi ha seguito il flusso, la corrente, andando altrove alla ricerca di opportunità, di linfa vitale; è sufficiente attraversare a caso un qualunque ambiente montano dalle Alpi all’Appennino per imbattersi in borghi fantasma, è sufficiente…uscire di casa!
Tutto si potrebbe risolvere citando nuovamente Fosco Maraini: “ Più una cosa è semplice e più è raffinata, ma non della semplicità del primo tipo, cioè di colui che torna indietro sui propri passi fino al semplice, ma quella del secondo tipo, cioè di colui che arriva al semplice avendo percorso tutta la circonferenza del complicato”.
Noi, abitanti dell’angolino, contenuto dell’ampolla, saremo del primo o del secondo tipo? Saremo dei profondi pensatori, fini intellettuali, architetti dell’esistenza, poeti, oppure stupidi zoticoni dai cromosomi involuti, e ritornati, ascia in mano agli albori della nostra piccola aiuola?
A questo non so rispondere. O forse non voglio rispondere?
Forse risponderò, oltre.

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