giovedì 3 maggio 2007

FAGGI, MONGOLFIERE, STRADE E SUDORE ossia: elegia della SLOITHA*


*La sloitha è la tradizionale slitta tramite la quale si trasporta(va) a valle la legna. L'associazione delle lettere TH va pronunciata nella forma inglese in quanto in grado di riprodurre piuttosto fedelemente la fonìa dialettale.



Ciò che segue è la cronaca di un autunno (anno 2002 circa) nel corso del quale le consuete operazioni legate all'esbosco delle assegnazioni di legna da ardere (consegne) avevano assunto connotati più marcatamente comici rispetto alla loro normale comicità!


Siamo ormai verso i primi di dicembre, l’inverno sembra ormai incombente ma la neve, per la gioia di molti e la preoccupazione di altri sembra aver scelto altre latitudini sulle quali adagiarsi.
L’autunno è scivolato via così, troppo bello per essere vero, concatenando giornate stupende, colorate, calde, distorte solamente dagli spari di qualche carabina.
Verso metà settembre, ho visto le chiome dei faggi delle Ragade trasformarsi in palle colorate, è curioso, come d’autunno le sagome dei faggi diventino rotonde, non danno questa sensazione durante il resto dell’anno.
I colori autunnali, sfuggono via con incipienza sconsiderata, dal momento che notiamo qualche marginale foglia cambiare aspetto ecco che in breve tempo l’intera massa inizia a staccarsi e creando un costante rumore di sottofondo va a depositarsi su terreno.
Generalmente verso quell’epoca si verifica sempre un considerevole abbassamento della temperatura, basta poco, qualche giorno ed i processi degenerativi delle cellule che stanno alla base del picciolo della singola foglia divengono inarrestabili, la conseguenza è suo il distacco dal rametto.
Ho goduto anche quest’anno del questo ciclico avvenimento, platea d’occasione il bellissimo bosco del Fratton, situato tra l’omonima malga ormai sfatta e la malga Fossetta, proprio di fronte alle Ragade dove i faggi d’autunno si trasformano in mongolfiere.
Qui il bosco è bellissimo, lo è perché è vario di specie arboree, lo è perché nel sottobosco vi ho trovato varie specie di felci alle quali quest’anno mi sono dedicato, lo è perché la pendenza è ancora accettabile prima di aumentare e inerpicarsi verso il Palughet, lo è perché quando ad undici anni lavoravo alla Malga Fossetta lo attraversavo, in solitudine, il sabato sera, per tornare a casa in uno stato d’animo di felicità mai eguagliata.
Certo che un bosco reduce da un taglio di utilizzazione (lotto) è un bosco che grida sofferenza, il suolo, simile al viso scarificato di una giovane africana, porta i segni del passaggio di un cingolato. Pezzi di tronco, rami e fronde come gettati in una fossa comune, il segno del martello forestale sulla ceppaia è la condanna a morte di un albero che ha visto i miei antenati.
Questo provo alla sua vista.
Ma per un attimo!
Il bosco in questione, ha subìto, quest’anno, prima il taglio delle conifere e successivamente quello del faggio come legna da ardere, all’interno della consueta assegnazione del quantitativo di legna, ad uso domestico, che spetta ai censiti del comune (consegne).
Ogni autunno, all’avvicinarsi del periodo delle consegne mi dico; devo scrivere qualcosa, perché so, già in anticipo com’è, è sempre la solita storia; gli interessati iniziano a fremere e l’attesa, sotto forma di vibrazioni dell’etere si fa insistente.
Iniziano a circolare le voci sulla progressione dei lavori di allestimento delle assegnazioni; sulla loro località e rispetto a questa la comodità in relazione alla strada di accesso; la grossezza delle piante, in quanto come si sa, più sono grosse e più sono ambite, anche se bisogna lavorarle il doppio e soprattutto guai che la quantità di abete sia troppo evidente rispetto al faggio.
La situazione, se pur tesa, rimane tranquilla fino a metà settembre.
Superata questa data, l’ansia si rende visibile, il terrore per l’inverno in avvicinamento e la smania di impugnare gli attrezzi giusti fanno man mano degenerare la percezione temporale della scadenza; da li in poi, ogni commento nei confronti di guardaboschi ed affini divengono leciti.
Si vive l’attesa delle consegne e l’inizio delle attività come una delle tappe irrinunciabili per chi vive questa montagna, geneticamente acquisita in secoli di necessario praticantato.
Si sente però sempre più spesso dire, quando la gente si incontra con la roncola in mano: “se fuse da vardar, convien comprarle”. Ma chi ci rinuncia! Lé massa bel.
L’ultimo ciclo è stato quello che io chiamo dell’involuzione, o del contropiede, oppure del ripudio, più o meno forzato della tecnologia moderna applicata all’esbosco.
Finalmente, dopo anni, si sono create nonostante il reticolo di strade forestali, le condizioni per cui i comuni mezzi meccanici a disposizione di chi non fosse espressamente un boscaiolo di professione, erano pressoché inutili; pendenza troppo poco elevata per poter montare un filo a sbalzo, terreno troppo ripido e sconnesso per l’accesso dei comuni trattori.

Quindi; SLOITHA!
La prima giornata di lavoro: direi interlocutoria.
Ognuno a ripulire il proprio settore dalla ramaglia, guardando l’ambiente circostante quasi con ostilità, la strada lontana, altra legna sparsa sotto di noi a sbarrare la strada.
Qualche parola con i vicini, qualche accenno o azzardo ad alternative diverse, ma non emerge nulla di più convincente.
Quindi; Sloitha.
A questo punto, appurato che alternative non ce ne sono si presenta un problema di non facile soluzione, conseguenza logica dell’acquisita modernità e comodità che mamma Provincia ha voluto fornirci in anni di politica di sviluppo stradale.
Il problema era: chi ha ancora una sloitha in soffitta?
E se c’è, in quali condizioni?
Dal censimento dei mezzi, effettuato sul campo, è risultato che qualcosa c’era ancora, ma in quanto a stato di conservazione stavamo messi piuttosto male.
Dopo la prima mezza giornata di lavoro si sono contate numerose le defezioni fra i mezzi impiegati.
Le parti più a rischio si sono dimostrati i Branch, ossia le appendici tramite le quali la sloitha si tira e quindi si guida, seguiti dalle Gambéte, cioè i supporti su cui poggia la struttura di carico, i Bachét, ossia la serie dei bastoni che collegano fra loro le varie parti della struttura di carico. Infine, credo uno in tutto, la parte principale del mezzo cioè el Strothil, il pattino.
Non ricordo di aver assistito alla rottura di alcuna Sèla, cioè i robusti legni trasversali della struttura portante.
Il secondo giorno di lavoro, nel pomeriggio, mi presento sul posto, la mia sloitha, che diligentemente avevo appoggiato ad un grosso abete, non c’è più! Mbeh?
Stava già sostituendo una sua collega ricoverata!
Mancava all’appello, fra le altre cose, un requisito importantissimo frutto anch’esso di uno stile di vita ormai cambiato; l’efficienza fisica delle persone.
Il detto che la sloitha si fa portare in salita e tirare in discesa è sintomo di quanto poco possa essere stata amata e di quanto la forma fisica sia requisito essenziale per la sua sopportazione.
In breve quindi, il ciglio della strada s’è trovato addobbato di relitti meccanici ed…umani.
I primi, arrangiati con mezzi di fortuna, rami del bosco a sostituire i branch, legati o inchiodati con poca arte sicuramente, i secondi sconfortati e doloranti; ma caparbi.
Ad un certo momento, e per fortuna il sottoscritto aveva finito, è comparsa una sloitha…in ferro!
Esclusa “l’eretica” presenza metallica, sul campo si è assistito alla sfida fra due categorie di mezzi, quello con pattini lunghi e quello con pattini corti.
La lunghezza del pattino, non è attinente alla porzione che scivola sul terreno, bensì a quella che rappresentata dalla curvatura del pattino stesso, emerge verso l’alto.
Alla prima categoria fanno quindi parte i mezzi la cui curvatura, dopo lo stacco da terra, continua per altri 50-60 cm fino ad innestarsi con i branch, dove viene ad esso saldamente legata tramite una sottile cordicella.
Alla seconda quelli la cui curvatura si interrompe dopo una ventina di centimetri, quanto basta per permetterne lo scorrimento.
La sfida non ha portato comunque a dimostrare la validità di una o l’altra tipologia.
Quale sia l’origine della diversità è difficile da dire; il pattino “allungato” è tipico ed esclusivo di Sagron (e di Gosaldo), l’altro è utilizzato a Mis e comunemente si trova nelle altre valli.
La componente geografica, riferita alle caratteristiche orografiche delle rispettive zone, sembra ininfluente rispetto allo sviluppo di un sistema o dell’altro, probabilmente il tutto si riconduce a semplici consuetudini di fabbricazione.
L’unica giustificazione, per altro da appurare, è forse il fatto che sui ripidi versanti verso il Piz di Sagron, vi sia maggiore possibilità di rinvenire i faggi necessari aventi caratteristiche di curvatura adatte a ricavarne Strothii allungati.
Varrebbe la pena approfondire l’argomento.
Proprio questa sera, su sollecito di mio padre, ho scelto la mia nuova slòitha, ne ha costruite ben quattro; quest’autunno, le commissioni sono fioccate come non mai, sull’onda del risultato del censimento!
Una sloitha nuova, invoglia ancor meno ad essere utilizzata, pesa come un macigno. Fortunatamente, come spesso accade, il tempo migliora le cose ed il legno essiccandosi perde gran parte della sua umidità, assestando il peso complessivo sui 15-20 chili.
Per la sua realizzazione vengono impiegati dai quattro ai cinque tipi di legno diversi.
Come precedentemente accennato, le parti del mezzo sono:
I strothii
Le gambéte
Le sèle
I bachét
I branch
Ognuno di essi si realizza con un legno specifico; i Strothii rigorosamente in faggio, perché duro, resistente allo sfregamento e regge bene gli incastri con le altre parti, così le Gambéte, che alle volte vedono l’utilizzo anche del frassino.
Le Sèle vengono realizzate normalmente in frassino, se vi è la possibilità si usa l’abete che però dev’essere ricavato da piante giovani e molto ramose, chiamate in dialetto Spinaruol, il gran numero di piccoli nodi presenti impedisce che il legno si apra seguendo le venature.
I Bachét vedono l’impiego del sorbo degli uccellatori, in quanto molto flessibili e resistenti in relazione al ridotto diametro.
Per ultimi i branch, realizzati in legno di nocciolo perché, come il sorbo, flessibile e resistente alla curvatura. Quest’ultima qualità è piuttosto rilevante, in quanto appena al di sopra del punto di innesto con il pattino subiscono una brusca piegatura in avanti per raggiungere la posizione ideale per il traino. La piegatura viene facilitata riscaldando la parte.
Inoltre, il particolare sviluppo di questa specie arbustiva, offre la possibilità di ricavare bastoni provvisti di una naturale impugnatura ripiegata, data dall’inserzione a circa 45 gradi, di un ramo su di un altro subordinato.
Vi risparmio indicazioni più dettagliate sulle tecniche costruttive per dire solamente che è vietato l’uso di qualsiasi collante nonché di viti e chiodi.
Per non rendere questa descrizione lunga quanto il tempo che non passa mai tirando la SOITHA concludo dicendo che le strade forestali sono indubbiamente comode, ma a tutto ci deve essere un limite…!

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao Gipeto
bella la storia sul slitton, alla fine ho anca capì en do te volevi arivar. Comunque ho fat quatro risade e, anca se da zitadin, me vegnu en ment le volte che son na a far la "sort" o part come se dis qua en giro, l'ultima volta tanti bei ani fa , ma me par de averghe ancor le bufe. Per no parlar de tutti i podaroi e i manaroti lasati en giro per i boschi ...